sabato 16 febbraio 2013

Dopo l'autunno - appunti sulla stagione degli studenti appena trascorsa



Pubblichiamo anche sul nostro blog questo contributo di analisi sul movimento studentesco scritto dai compagni Beatrice Achille (studentessa liceale) e Gabriele Donato (insegnante precario) e apparso sul sito www.marxistinordest.org







Ancora una volta, fra ottobre e novembre, ha preso forma una grande mobilitazione studentesca nelle principali città italiane: strade, piazze e palazzi del potere sono stati travolti da una marea di giovanissimi che è cresciuta d’intensità in tempi rapidissimi e che, con altrettanta rapidità, sembra essersi placata. Tanto veemente è stata la spinta espressa dalla protesta nel corso di alcune mattinate particolarmente movimentate, quanto precipitoso è sembrato il “rientro nei ranghi”. E’ la dinamica di questi ultimi anni, diversa per molti aspetti dalle consuetudini delle fasi precedenti: mobilitazioni che duravano settimane e settimane hanno lasciato il posto a esplosioni di indignazione che concentrano il loro potenziale in alcune giornate, quando non in alcune ore.



Ciò che sembra perdersi in termini di durata, si esprime in termini di intensità: la logica della sfilata festosa non appare più persuasiva agli occhi di ragazzi evidentemente determinati ad attraversare esperienze dal più elevato valore d’intensità conflittuale. Di cortei in cui a procedere sono gli spezzoni ordinati delle singole scuole, incolonnati a formare manifestazioni pensate per colpire l’opinione pubblica con la forza dei numeri, non se ne vedono più; sembra che gli studenti che abbandonano le proprie aule per riempire le strade non siano più interessati a dimostrare quanto sono capaci di organizzarsi: l’impressione che suscitano è che a loro interessi esclusivamente irrompere, con l’urto dei propri corpi ammassati, nella routine delle consuetudini urbane, per sconvolgerne, fosse pure per qualche istante, l’ordinato svolgimento. Breve durata e forte intensità: questi sembrano i tratti caratterizzanti di un’attitudine che ha stravolto le abitudini di tanti degli autunni precedenti.

Sono rare le occasioni in cui dei cortei si discute nel corso di partecipate assemblee preparatorie, e sono altrettanto rare le riunioni in cui ci si confronta sulle parole d’ordine da agitare, sugli slogan da gridare, sui messaggi da diffondere: è come se delle ragioni per cui si scende in piazza non sia più necessario rendere conto, tanto che negli striscioni più visti e fotografati è poco lo spazio per rivendicazioni concrete e obiezioni specifiche; prevale, invece, l’enfasi su alcune contrapposizioni irrisolvibili, su divaricazioni ritenute irreversibili: “Non ci avrete mai come volete voi!”, per dirla con parole che sono state ritmate praticamente da tutte e tutti.

Se le piazze, d’altro canto, si riempiono facilmente, gli spazi che ospitano le attività di quanti si danno da fare per organizzare il movimento sono animati spesso da pochi – alcune decine nei migliori dei casi – e i gruppi strutturati seriamente, capaci di raggruppare studenti provenienti da varie scuole, non appaiono certamente in grado di sintetizzare, con le loro proposte, il quadro delle forze complessivamente in campo. I gruppi in questione, d’altra parte, contano su un radicamento limitato all’interno delle scuole: poche sono le realtà in cui esistono collettivi d’istituto seriamente strutturati, e non sono numerose le realtà in cui le organizzazioni più politicizzate riescono ad affermarsi in occasioni dei rinnovi delle rappresentanze studentesche.

Emersioni e dispersioni

Tranne in alcuni casi, le sigle mutano, compaiono e affondano, si diffondono e spariscono: gruppi informali di attivisti improvvisati si aggregano e si disgregano con una rapidità incredibile, disperdendosi non appena la “campagna” per la quale sono sorti appare esaurirsi; ciò nonostante è sbalorditiva la regolarità con cui, anno dopo anno, le proteste prendono corpo, si animano e si allargano, per i motivi più svariati, che appaiono – proprio per la loro transitorietà – delle vere e proprie occasioni: di esse ragazze e ragazzi si appropriano voracemente al fine di dare un’apparenza di ragionevole attualità all’imprevedibilità delle loro esplosioni di indignazione, che si succedono senza che si riesca a sedimentarsi, apparentemente, alcuna forma di continuità.

Hanno imparato ad appropriarsi anche delle date delle proteste sindacali: in nome dell’esigenza comune di far fronte alle conseguenze della crisi, studentesse e studenti sempre più spesso indicono le proprie iniziative nelle giornate di mobilitazione indette dalle organizzazioni dei lavoratori. Non si tratta, il più delle volte, di azioni concordate, di appuntamenti costruiti assieme, di momenti di conflitto vissuti fianco a fianco: si tratta, piuttosto, di eventi organizzati in contemporanea, e pensati per comunicare l’interesse nei confronti di una convergenza fra movimenti che si ritiene utile rimangano distinti.

Le difficoltà a far vivere per davvero l’unità fra studenti e lavoratori sono sotto gli occhi di tutti: non c’è stata contaminazione significativa, in questi anni, fra le pratiche di questi due mondi; richiamarsi al principio della solidarietà non è stato sufficiente: le due dimensioni hanno continuato a rimanere sostanzialmente separate. Non è bastato che alcuni gruppi studenteschi abbiano fatto propria una certa retorica sessantottesca, né che alcune organizzazioni sindacali abbiano coltivato buone relazioni diplomatiche con alcune sigle giovanili: quanti operai in lotta hanno preso la parola nel corso di assemblee d’istituto, e quanti studenti durante le assemblee sindacali? Quanti studenti hanno partecipato ai picchetti davanti alle fabbriche, e quanti delegati ai flash mob del movimento? Le prime forme di avvicinamento “diplomatico” non hanno generato le condizioni per un mescolamento vero e proprio di istanze, di parole d’ordine, di comportamenti conflittuali; il lavoro, in questo campo, resta ancora tutto da fare, e non si tratta di problemi da risolvere riesumando vecchi slogan: la costruzione di una volontà generale che scaturisca dalle aspirazioni dei diversi gruppi in campo è ancora tutta da inventare.

D’altro canto, quali lotte operaie hanno dimostrato la capacità d’incidere sull’immaginario giovanile, fosse pure su quello delle minoranze più attive e consapevoli? Certo, la dignità degli operai di Pomigliano ha colpito, come anche la fierezza dei minatori sardi, per citare solo due esempi, ma se la tenacia di quanti si sono dati da fare per non perdere il lavoro ha certamente suscitato un grande rispetto, non ha avuto la forza di tramutarsi in un vero e proprio grido di battaglia per una generazione di studenti che ha a che fare con problematiche difficilmente assimilabili alle contraddizioni della condizione operaia tradizionale.

Ecco, allora, che alla coscienza di questi giovani ha parlato molto di più l’aspra lotta del movimento No Tav: se c’è stata un’esperienza conflittuale che ha dimostrato di poter essere egemonica è stata proprio quella di cui si sono rese protagoniste le popolazioni della Val di Susa, con la loro indomabile combattività e la loro tenace ostinazione nel ritenere di non dover arretrare di fronte alle insistenze del pensiero unico, e alle minacce dell’apparato repressivo. Sono stati i manifestanti di quel movimento a colpire l’immaginario di tanti ragazzi, e assieme a loro gli indignados spagnoli e greci, che hanno saputo essere altrettanto rabbiosi nel rivendicare le proprie ragioni: di quante lotte sindacali, invece, si è parlato nelle riunioni studentesche? Le estenuanti trattative con le quali i sindacalisti provano a tutelare gli interessi dei propri organizzati non hanno molto da trasmettere a quanti animano il movimento studentesco: questi ultimi appaiono legittimamente allergici alle pratiche concertative in cui si risolvono nella gran parte dei casi le strategie sindacali.

Si sono rivelate incredibilmente contagiose, invece, le pratiche delle proteste Occupy!in giro per il mondo: le immagini dell’accampata di Wall Street e delle piazze spagnole occupate hanno determinato l’agenda delle mobilitazioni in mezzo mondo, e anche in Italia hanno spinto in avanti il movimento studentesco, ristrutturandone l’immaginario. Esse hanno comunicato immediatamente, al di là dei contenuti delle rivendicazioni avanzate, il senso di una ribellione totale all’ordine tradizionale, allo stesso modo delle prime linee dei cortei contro l’Alta Velocità. E’ grazie a dinamiche del genere che i giovanissimi italiani, al pari dei loro coetanei inglesi, francesi, sloveni etc, hanno potuto sentirsi parte di una ribellione globale, che dalle piazze delle rivoluzioni arabe è dilagata fino a disturbare le vie d’accesso a tanti dei palazzi del potere in Europa.

I cortei di questi mesi, pertanto, non si spiegano con i decreti odiosi del governo Monti o con le provocazioni arroganti dei tecnici che si sono posti al suo servizio, ma scaturiscono da un senso di estraneità sempre più diffuso nei confronti di tutto ciò che è vicino alle istituzioni, di tutto ciò che è compatibile con la legalità costituita, di tutto ciò che appare funzionale all’ordine dominante. La disponibilità alla resistenza che viene dispiegata si mostra in termini sempre più conflittuali, ma alla caotica moltiplicazione dei terreni di lotta non si collega ancora la disponibilità nei confronti di alcun tipo di progettualità strategica. Asprezza e incompiutezza: è come se i movimenti giovanili di questi anni oscillassero continuamente fra questi due versanti.

Contestazione e rifiuto

Ma se i riferimenti alle leggi che gli studenti dicono di contestare (nel corso di questi ultimi mesi il ddl Aprea, conosciuto in realtà solo dagli attivisti più preparati) sono tanto improvvisati dall’apparire insignificanti, contro chi stanno continuando a scagliarsi? Contro l’“1%”, sembra di poter dire: contro avversari, in altri termini, percepiti come pericolosi proprio in quanto invisibili, detestati proprio in quanto nascosti da qualche parte, impegnati a rendere la vita un inferno al “99%”. Ma nascosti dove? Dentro i palazzi del potere, naturalmente, e dentro le banche: sono le istituzioni finanziarie, infatti, a essere percepite come i moderni santuari di una classe dominante capace di comandare il mondo con stratagemmi sempre più odiosi.

Non c’è più corteo che meriti di essere svolto se non mette nel mirino lo sportello di qualche banca, o l’ingresso di qualche sede istituzionale: senza un avvicinamento fisico alle barriere che separano i luoghi del dominio da quelli della socialità, senza un confronto serrato con le forze dell’ordine che di tali barriere sono garanti non c’è più manifestazione a cui abbia un senso partecipare. Sembra che per le ragazze e i ragazzi che protestano non esistano più parole o discorsi capaci di tradurre il senso del profondo rifiuto per ciò che li circonda: sono pochissimi, infatti, i volantini che fanno circolare, e quando diffondono i loro flyer è solo per annunciare un evento, per richiamare l’attenzione su un qualche tipo appuntamento (poche le riunioni e le assemblee, tantissimi i flash mob). Niente parole, pertanto: la retorica che conta è solo quella del gesto, la ribellione di cui c’è bisogno è quella praticata, non quella evocata.

Fino a qualche tempo fa, d’altro canto, le manifestazioni si chiudevano con gli interventi al microfono dei più bravi a parlare, impegnati in una vera e propria “gara” fra gruppi per conquistare più attenzione grazie ai ragionamenti più persuasivi: oggi, invece, la competizione è aperta sulle modalità dello stare in piazza, e il gruppo che riesce a conquistare più simpatie è quello che sa “usare la piazza” nel modo più spettacolare, grazie alla trovata più inattesa, all’impresa più eclatante, allo stratagemma che con più efficacia carica d’intensità gli attimi in cui si riesce a dare forma alla contestazione.

La comunicazione del movimento studentesco, pertanto, passa sempre di meno attraverso la mediazione delle parole, per offrirsi all’attenzione dell’opinione pubblica per mezzo del clamore del gesto: esso deve generare innanzitutto spiazzamento fra i tutori dell’ordine, e in seconda battuta sorpresa fra gli osservatori, sia fra quelli benevoli che fra quelli malevoli. Occupare strade e piazze, pertanto, non è più – o quantomeno non è soltanto – un modo per costruire consensi attorno a grandi campagne di opinione, ma dev’essere il segnale di una presenza disturbante: di una presenza, cioè, che manda all’aria certezze e frantuma consuetudini, violando quante più regole possibili, al fine esclusivo di dimostrarne la fragilità, e di evidenziarne l’assurdità.

Si tratta di obiettivi che gli studenti più accorti sanno di poter perseguire a prescindere dai grandi numeri: se per costringere alla resa un governo servono settimane di mobilitazione capaci di portare in piazza decine di migliaia di persone continuativamente, per far perdere la pazienza alle forze dell’ordine, per imbrattare le pareti di una banca o per costringere un conferenziere ad andarsene dalla porta di servizio bastano pochi minuti ben congegnati, in cui ad agire basta che siano poche centinaia di ragazzi agili e determinati. Ci riferiamo, naturalmente, all’agilità fisica di chi sa correre rapidamente, ma anche all’agilità comunicativa di chi sa trasmettere informazioni velocemente, attraverso un utilizzo sempre più accorto dei social network.

Che l’evoluzione tecnologica assieme a quella comunicativa coprano in realtà un’involuzione politica, un ridimensionamento sostanziale delle capacità di mobilitazione? Sarebbe banale pensarlo: non è mai sensato, infatti, fare graduatorie fra i vari cicli di mobilitazione, collocandone alcuni in cima e altri in fondo. Piuttosto è il caso di capire, e cercando di farlo ci si può rendere conto che la voglia di azione diretta, l’ansia di fare e di non limitarsi a parlare, a interloquire, a negoziare, altro non rappresenta che l’esigenza di agire a prescindere dalle mediazioni: un’esigenza, in altri termini, tutta condizionata dall’urgenza con cui viene posto il problema della trasformazione. In quanto tale, tale esigenza si configura come rivoluzionaria: entra continuamente in rotta di collisione, infatti, con la logica delle mediazioni, e si propone come antitetica all’ordine delle compatibilità.

Inutile negare, tuttavia, che il rischio dell’aspirazione alla trasformazione che non riesce a farsi progetto è quello del nichilismo; un movimento senza scopi e strategie che celebra il proprio esistere attraverso un agire votato esclusivamente all’immediatezza è un movimento che si limita a contemplare narcisisticamente se stesso: non vede gli ostacoli, non valuta gli avversari, non cerca alleati, non immagina convergenze, ma si ritiene onnipotente per il solo fatto di riuscire a prendere – con una certa regolarità – forma. Non è mai esistita una progettualità scaturita esclusivamente dai fatti: non sono mai esistite azioni capaci di indicare di per se stesse la direzione di marcia un movimento, eppure il problema di tale direzione esiste, anche se è forte la tentazione di eluderlo.

Si tratta di una tentazione cui è il caso di sottrarsi: ci riferiamo alla tentazione cui invece cedono quanti, nel movimento, rifiutano ogni riflessione critica sul passato e ogni ragionamento problematico sul futuro in nome di un eterno presente, di un’immediatezza senza tempo che le lotte sarebbero in grado di vivere all’infinito. Va messa in discussione l’attitudine di chi non vede altro che il movimento che si agita, di chi considera praticamente un nulla tutto ciò che viene prima e ciò che può venire dopo, oltre a tutto ciò che sta attorno e ciò che sta contro.

La protesta che vive solo di eventi, e che prescinde completamente da qualsiasi orizzonte strategico, rimane irrimediabilmente distante dai cambiamenti importanti cui pure allude continuamente. Ecco perché la riflessione sulla strategia è importante: non si tratta affatto di un richiamo astratto a un ideale cui la dinamica delle mobilitazioni dovrebbe conformarsi, a un “dover essere” cui dovrebbero corrispondere; si tratta, invece, d’individuare correttamente le spinte più avanzate che il movimento riesce a esprimere e di sostenerle, con un impegno ostinato a far vivere la discussione sulle finalità per le quali vale la pena di battersi nel cuore stesso delle proteste, in mezzo a quanti le animano, non ai margini dei processi che si sviluppano.

Quale progettualità?

Chi ha voluto le lotte di questi anni, chi ci ha creduto, chi le ha animate e chi ha dato loro voce deve avere altre ambizioni: deve immaginarsi i modi per provare a farle durare, non solo per farle esplodere; deve interrogarsi su come dotarle d’incisività, non solo di spettacolarità; deve attrezzarsi per estenderne le potenzialità mobilitative, non solo per incrementarne l’efficienza mediatica. La capacità delle proteste di esprimere conflittualità deve crescere assieme alla loro capacità di produrre coinvolgimento: non ci si può attendere che il consenso si produca semplicemente nei termini di una solidarietà con le ragioni di chi si espone; esso deve scaturire dall’estensione della partecipazione al fianco di quelli che per primi decidono di esporsi, e si tratta di un’estensione che non si produce sempre e solo spontaneamente, ma per la quale vanno create le condizioni.

Un movimento che ha voglia di svilupparsi, e di trasformarsi crescendo, è un movimento che sa discutere e ragionare, oltre che gridare; è un movimento che sa indietreggiare con intelligenza, non solo avanzare con baldanza; è un movimento che sa moltiplicare le interlocuzioni e che sa trovarsi i propri alleati, e che non si limita a pretendere consensi o evocare convergenze; è un movimento che sa confutare i propri avversari, e non si limita a denunciarli; è un movimento che sa organizzarsi democraticamente, e che vuole liberarsi dalle improvvisazioni dello spontaneismo per dare alla forza della spontaneità la possibilità di dispiegarsi pienamente. E’ un movimento, in altri termini, che sa farsi forte della reticolarità ma che sa evitare la dispersione.

Esiste la possibilità che le proteste di questi anni evolvano in una direzione simile? Le energie che si sono materializzate autunno dopo autunno indicano che gli spazi a disposizione per quanti rimangono intenzionati a dare battaglia sono potenzialmente enormi; si tratta di una possibilità che va presa sul serio: essa ha a che fare con l’incongruenza che oggettivamente esiste fra l’ampiezza delle aspirazioni trasformative che emergono e l’improvvisazione delle pratiche che vengono agite.

Coloro che militano nei gruppi, che lanciano gli appuntamenti, che animano i cortei devono diventarne consapevoli: l’incisività di una mobilitazione ha a che fare anche con la capacità che dimostra di durare, non solo con quella di esplodere, e una mobilitazione in grado di durare non può vivere solo di generosità e improvvisazione. L’indignazione che non smette di esplodere va coniugata in termini che non siano semplicemente quelli del rifiuto: solo in questo modo essa può preludere alla ribellione collettiva che vorremmo scaturisse dal rifiuto dell’ingiustizia.

Non ci si può mettere seriamente in cammino mimando le dinamiche del passato, riecheggiandone la retorica: le ragazze e i ragazzi che optano per l’impegno militante, che non indietreggiano di fronte ai rischi dell’attivismo, non si accontentano di ripetere le rime scandite nei cortei di un tempo, né trovano soddisfazione nel riprodurre le dinamiche dei passati cicli di mobilitazione. Non hanno nessuna intenzione di recitare il copione che per loro prevede da decenni il ruolo di comparse negli “autunni caldi” che stancamente vengono messi in scena.

Non si lascia molto spazio all’emersione del nuovo che continuamente affiora, quando l’intenzione è quella di rifare tutto daccapo lungo rotaie predirezionate; non ci si occupa delle proteste solo per descriverle come anticipazioni di dinamiche tanto nostalgicamente evocate quanto incapaci di prendere concretamente forma. La voglia di usare parole nuove, di appropriarsi di stili comunicativi slegati da quelli dei decenni trascorsi è il segno di un’esigenza di originalità che sarebbe assurdo trascurare: si tratta di un’esigenza sacrosanta che merita di essere presa sul serio, e che deve sollecitare l’attenzione di quanti guardano con simpatia alle imprese di cui questi giovani si rendono protagonisti.

Queste imprese continueranno a segnare di sé i prossimi passaggi dell’evoluzione politica del paese: dilaga, infatti, il malessere prodotto dalla crisi, e l’inquietudine che esso genera impedisce a ragazze e ragazzi di tranquillizzarsi, di rasserenarsi, di pacificarsi. E’ la stessa inquietudine che turba le vite di lavoratrici e lavoratori costretti quotidianamente a chiedersi quale sia il destino della loro esistenza, nell’epoca del capitalismo globalizzato e del dispiegarsi delle sue contraddizioni. In questi anni, oltre al disagio, è dilagata anche la certezza che la politica tradizionale, nelle sue varie coloriture, non ha più alcuna capacità di mettere in discussione gli assetti di tale sistema di dominio. Per questa ragione, le sollecitazioni delle studentesse e degli studenti che hanno affrontato il potere nelle piazze riempite in questi anni vanno prese sul serio: l’unica politica che ha senso fare è quella contro i Palazzi, non quella dentro i Palazzi.

Si tratta dell’impegno politico che sa tradursi continuamente in occasioni di mobilitazione, in iniziative di lotta, in momenti di conflitto, e che rifiuta invece di esaurirsi nelle modalità concertative e nelle pratiche negoziali. Il rifiuto della politica da parte dei giovani che riempiono le piazze, allora, va considerato per quello che è effettivamente: il rifiuto dell’accondiscendenza nei confronti delle logiche di un potere che funziona per tenere continuamente separati i processi decisionali dal confronto con le esigenze popolari. Questo rifiuto va rivendicato, non va temuto, e va rafforzato consolidando un prezioso elemento di consapevolezza: il potere che con tanta veemenza viene contestato non è destinato a dissolversi, ma dev’essere battuto, in una battaglia che non può esaurirsi nel momentaneo moto d’indignazione del settore più arrabbiato di una generazione. Battaglie di questo genere non s’improvvisano: esse vivono di indignazione e di spontaneità, ma si affermano grazie a strategia e organizzazione. E’ anche di questo che ci dovremo occupare.

Trieste, febbraio 2013

martedì 12 febbraio 2013

La scuola pubblica crolla! - manifestazione Venerdì 15 Febbraio

"Nella giornata di mobilitazione nazionale, con mobilitazioni previste anche a livello regionale ad Udine, gli studenti triestini tornano a far sentire la loro voce dopo un autunno che li ha visti protagonisti nelle strade.
Il gravissimo fatto del Liceo Oberdan, dove una finestra è caduta sulla spalla di una ragazza, ferendola, evidenzia ancora una volta la precaria condizione dell'edilizia scolastica a Trieste. Questo è infatti il secondo fatto dall’inizio dell’anno scolastico che interessa le scuole di Trieste: solo qualche mese prima all’istituto Nautico un ragazzo era stato colpito da un calcinaccio durante l’intervallo. Le scuole, al giorno d’oggi, sono in condizioni edilizie talmente fatiscenti da mettere a repentaglio la vita di chi ogni giorno ci entra per formarsi e imparare: lo dimostrano i numerosi incidenti, a Trieste come nel resto dell’Italia, come ad esempio al Liceo Darwin di Rivoli, dove nel 2008 crollò un soffitto ed un studente rimase ucciso. Morire entrando a scuola non è possibile.
Il menefreghismo delle istituzioni è evidente nel silenzio che accompagna le proteste studentesche, nelle quali le istituzioni anche durante quest'autunno si sono sempre dimostrate assenti e silenziose, ed hanno protetto i loro edifici con cordoni e blindati delle forze dell'ordine. Il fatto di questo fine novembre, quando la Provincia non ha presentato la richiesta per ottenere i fondi per l'edilizia scolastica, evidenzia ancor più la poca serietà delle istituzioni. Proprio per questo la giornata di mobilitazione del 15 febbraio partirà da Piazza Vittorio Veneto dove ha sede la Provincia.
Gli studenti non ci stanno, e si faranno sentire per dimostrare che non si può rischiare la vita entrando negli edifici scolastici!"


Su questa piattaforma, che condividiamo, i compagni e le compagne dell' Unione degli Studenti di Trieste organizzano una manifestazione studentesca


VENERDì 15 FEBBRAIO
ore 9:30
Piazza Vittorio Veneto - sede della Provincia

venerdì 16 novembre 2012

Contro fascismo e omofobia - presidio 16 novembre in p.zza Borsa

16 Novembre - ore 18:00
Piazza della Borsa
Presidio antifascista e contro l'omofobia

Pubblichiamo l'appello lanciato da Arcigay e Arcilesbica Trieste per la manifestazione antifascista e contro l'omofobia di questo pomeriggio.

Circolo Arcobaleno Arcigay Arcilesbica di Trieste

APPELLO

INSIEME PER DIFENDERE LA DIGNITÀ DELLE PERSONE
16 novembre 2012


In occasione di un convegno organizzato da Forza Nuova a Trieste presso l’Hotel Savoia, scendiamo in piazza per protestare contro le posizioni omofobiche di questo movimento politico di estrema destra, posizioni che poco più di due settimane fa hanno trovato la più becera espressione in uno striscione appeso al Cassero di Bologna, sede storica dell’Arcigay, che riportava la scritta: “Le perversioni vanno curate”, con chiaro riferimento alla comunità omosessuale e transessuale.

Riteniamo che un simile gesto, sprezzante della dignità umana e che ci riporta indietro a tristi momenti della nostra storia, non debba essere sottovalutato ma vada considerato in tutta la sua gravità. Vogliamo ricordare a tutti e tutte che dobbiamo reagire di fronte a provocazioni di stampo fascista, che denigrano le cittadine e i cittadini omosessuali e transessuali, ricordando inoltre che viviamo in un paese in cui una categoria di persone non vede ancora riconosciuto il diritto, garantito dalla Costituzione, di formare una famiglia e di essere tutelate da una legge in caso di discriminazione e di violenza omofobica.

Purtroppo il questore di Trieste ha ordinato al Circolo Arcobaleno di spostare il presidio, che volevamo fare davanti all’Hotel Savoia. L’ordine di spostamento è stato motivato con il pericolo di tensioni che potrebbero crearsi e per evitare turbative dell’ordine e della sicurezza pubblica.

Nell’assoluto rispetto della decisione del questore, non possiamo non manifestare la nostra amarezza per quanto avvenuto: la comunità gay, lesbica e transessuale viene insultata e denigrata da un movimento politico ma non può manifestare in maniera pacifica e democratica, come il Circolo Arcobaleno ha sempre fatto, nei pressi del luogo del convegno di questo stesso movimento.

Gay, lesbiche e transessuali potranno manifestare ma da un’altra parte, lontano da chi li insulta e li denigra. Vittime due volte: nella loro dignità sociale e nell’esercizio democratico della libertà di espressione.
Ci domandiamo come può la consigliera regionale e comunale, Alessia Rosolen, legittimare politicamente, con la sua presenza al convegno, un movimento che fa dell’omofobia una sua bandiera?

Ci rivolgiamo ai cittadini, partiti, sindacati e movimenti, che credono nei valori democratici e antifascisti a fondamento della nostra Repubblica, affinché aderiscano al nostro appello e difendano con noi la dignità delle persone, siano esse omosessuali, rom o migranti, e per sostenere la lotta contro il razzismo, che nell’Italia di oggi trova purtroppo sempre più spazio e alimento.

lunedì 12 novembre 2012

Scuola Bene Comune

Oggi, in un'aula magna gremita, al Liceo Dante, un centinaio di persone hanno risposto all'appello per un'assemblea cittadina lanciato dai docenti in agitazione delle scuole superiori di Trieste.
L'assemblea nasceva per dare coordinazione alle azioni di protesta messe in atto, contro i tagli all'istruzione e contro l'aumento del monte ore settimanali, principalmente dai docenti di Oberdan e Petrarca, ma si è trasformata, alla luce della grande partecipazione studentesca, in qualcosa di più grande, in una grande assemblea di movimento per la costruzione di un fronte ampio in difesa della scuola pubblica e contro i tagli.
Il processo che si è messo in atto è molto positivo, e vede dopo tanto tempo, studenti e lavoratori della scuola consapevolmente uniti nella lotta.
Positivo inoltre è il processo che nelle singole scuole, con momenti di partecipazione e discussione democratica, sta mettendo tanti studenti e studentesse delle scuole di Trieste nelle condizioni di vivere in prima persona un lotta così importante.
Dopo anni in cui il movimento studentesco ha scontato pesanti sconfitte anche per la poca organizzazione e per la lontananza con il movimento dei lavoratori, finalmente un nuova pratica di partecipazione e di condivisione si è aperta nel nostro territorio.
Dell'unità tra studenti e lavoratori, non c'è bisogno dirlo, abbiamo un grande bisogno, per ricostruire un fronte ampio di lotta contro il governo e contro ai tagli all'istruzione pubblica. Perchè uniti si vince, e solo la lotta paga!

Domani studenti e docenti saranno in piazza, assieme, per dimostrare la propria indignazione e la propria determinazione a salvaguardare quel grande patrimonio di saperi e di democrazia che è la Scuola Pubblica.
L'assemblea inoltre ha aderito allo Sciopero Generale di mercoledì 14 Novembre.

I Giovani Comunisti di Trieste, in quanto studenti e lavoratori, parteciperanno alle prossime iniziative e daranno il proprio contributo per la riuscita dello sciopero del 14N.
Siamo a fianco di tutte/i coloro i quali hanno deciso che è il momento di darsi da fare per lottare costruire un'alternativa credibile a questo governo, a questa crisi e a questo sistema....altro che Primarie!

Istruitevi, agitatevi, organizzatevi!


venerdì 9 novembre 2012

14Novembre - Sciopero Generale Europeo!

Mercoledì 14 Novembre
Ore 9:00 in Piazza Goldoni


lunedì 22 ottobre 2012

Grecia in Rivolta - il volantino


Il volantino dell'iniziativa di giovedì 25!